(7/10/2019) – Cosa hanno in comune Jacky Ickx e Arturo Merzario? Il ritiro! I due si detestano cordialmente: il pilota belga non ha mai particolarmente considerato il pilota comasco che, a sua volta, nel definirlo spiritosamente “il principe delle Ardenne” non ne ha mai digerito l’atteggiamento elitario e poco collaborativo. Ickx talentuoso, benestante e poco propenso alla “fatica” dei collaudi; Merzario spontaneamente veloce, dedito al sacrificio, capace con ogni tipo di vettura da corsa. Jacky vive di rendita dall’alto dei suoi record alla 24 Ore di Le Mans, Arturo a 76 anni va ancora in pista. Ebbene, qual è l’unica lieson tra i due? Il 7 ottobre del 1979, 40 anni fa esatti, il Gran Premio degli Stati Uniti est significò per entrambi la fine della carriera in Formula 1. A Watkins Glen, con la Ferrari già campione del mondo, si chiuse la stagione e il percorso nella massima formula, speso accidentato, di due campioni diversi per estrazione e modo di intendere le competizioni ma accomunati dalla passione. Proprio l’affievolimento di questo “carburante” mentale fu alla base della decisione di dire basta.
In quel lontano 1979 Ickx, dopo tre stagioni tribolate alla Ensign, aveva trovato una nuova occasione alla Ligier improvvisamente orfana di Patrick Depailler infortunato alle gambe dopo l’incidente in deltaplano. Patron Guy aveva pensato a lui da affiancare al lanciatissimo Laffite e l’occasione era appariva assai ghiotta: la monoposto francese, sotto le cure di Ducarouge, era sorprendentemente in lizza per il titolo. Per il belga, nuovo esordio a Digione con un ritiro e poi solo un sesto e un quinto posto, rispettivamente a Silverstone e a Zandvoort. Per il resto, ritiri in serie, compresa l’ultima gara del Glen dopo soli 3 giri, ma soprattutto la consapevolezza e l’evidenza che il nuovo corso delle wing car ad effetto suolo non si confacevano assolutamente allo stile di guida di un purista come Ickx. Per uno abituato a governare, e molto bene, le monoposto in base al proprio estro e all’acume agonistico, l’effetto suolo significò sconfessare e annullare tutto questo bagaglio di conoscenze e talenti che lo avevano brillantemente condotto ai vertici dell’automobilismo. Correre, lamentavano i piloti di allora, come su un binario fu per il belga il de profundis agonistico e lui non tardò a trarne le conseguenze.
Merzario concluse mestamente due anni di autentico calvario con la “sua” monoposto. Ad inizio 1978 aveva infatti deciso il grande salto: fondare un team e diventare costruttore. Ne aveva le competenze, meno i necessari mezzi finanziari. Fece ricorso anche alla generosità dei tifosi, sollecitati dal settimanale Autosprint, che contribuirono per quanto possibile a sostenere l’avventura. Si rivelò tale: dopo il primo anno già tribolato, nel 1979 le cose non solo non migliorarono ma, anzi, precipitarono. Due partecipazioni e due ritiri per noie meccaniche in Argentina e a Long Beach, poi nonostante tre telai portati in pista, drammatica sequela di non qualificazioni (a Montecarlo non partecipò) con i costi in continuo aumento. Portare almeno a termine la stagione fu il più grande risultato ma non fu assolutamente possibile proseguire oltre nonostante un estremo tentativo. L’ex pilota della Ferrari – fu lui a fine ’73 a cedere il sedile al nuovo fenomeno Niki Lauda – suo malgrado dovette cedere e quel gran premio americano d’autunno fu l’ultimo della carriera che lo aveva visto alla guida anche di Iso, Copersucar, Wolf-Williams, March, Shadow. F1 ingrata e spietata, le grandi soddisfazioni se le era già prese con i Prototipi e senza svendere mai se stesso e la sua libertà di espressione.