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DA PECHINO A PARIGI, LANCIA IN RESTA!


(2/7/2013) – Con l’arrivo in Place Vendome a Parigi, dopo aver macinato 12.250 km con soli 4 giorni di riposo, si è conclusa la 5° edizione della Pechino-Parigi riservata alle auto storiche. La gara, iniziata il 28 maggio dalla capitale cinese, ha visto gli equipaggi attraversare 8 paesi Cina appunto, Mongolia, Russia, Ucraina, Slovacchia, Austria, Svizzera e Francia. L’Italia era rappresentata da un solo equipaggio e da una sola auto: la Lancia Fulvia Coupé 1300 numero 57 che Gianmaria Aghem e Piergiovanni Fiorio-Trono  hanno condotto fino all’ottavo posto nel gruppo delle vetture costruite dal 1942 al 1975 – il più numeroso – e al quinto posto nella classifica di classe delle vetture con cilindrata sotto i 2 litri.  La vettura – con il motore più piccolo in gara – si è comportata molto bene: unico inconveniente è stata una foratura. La preparazione è stata realizzata  dai tecnici  savonesi Italo Barbieri e Roberto Ratto, che hanno letteralmente “inventato” soluzioni che certo nei rally europei di qualche giorno, ricchi di punti di assistenza e con carburanti di uso normale,  non sono necessarie. 

Nella Fulvia sono stati stivati tutta una serie di ricambi: due ruote di scorta, doppio serbatoio, doppie batterie, strumenti di navigazione ecc. Concludere quindi una simile gara rappresenta una grande soddisfazione per la piccola Lancia e per un equipaggio all’esordio in un raid di questa portata! “Lo rifarei – dice Fiorio-Trono – ma con una compagna, per condividere le emozioni. La Mongoliaè fantastica, a parte la Capitale, anche i cavalli sono felici…e sereni. Troppo bello”. La Fulvia ha portato in giro per mondo le insegne dell’ ASI – Automotoclub Storico Italiano,  del Veteran Car Club di Torino e dell’ACI di Torino. Per la cronaca la gara per le vetture sino al 1942 è stata vinta dagli inglesi Garrat – Brown su Chevrolet Fangio Coupé mentre nel gruppo delle più moderne nel quale erano inseriti Aghem e Fiorio Trono si sono affermati gli australiani Crown – Bryson su Leyland P76 che monta un motore Rover V8 di 4400 cc.

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LOEB, LA’ DOVE OSANO LE AQUILE. Il francese vince anche la Pikes Peak


(1/7/2013) – “Per me è la corsa dell’anno”: Sebastien Loeb non finisce di stupire e ora nel suo carniere c’è anche la Pikes Peak la leggendaria cronoscalata del Colorado, la più alta del mondo. Il francese, al volante della mostruosa Peugeot  208 T16 (875 cv) ce l’ha fatta: non solo ha vinto ma ha stracciato il precedente record appartenente a Rhys Millen con il tempo di 9’46” 164 facendo segnare uno stratosferico 8’13” 878! Ennesimo chapeau dunque all’alsaziano che ha spinto al massimo onorando così gli otto mesi di lavoro dello staff che si è appositamente dedicato a questa sfida. Non sarà facile nemmeno per lui dimenticare simili sensazioni: “E’ molto diverso da quello che può si provare nei rally e in circuito. Si tratta di una combinazione dei due: le incredibili prestazioni da circuito auto con una vettura con più accelerazione di una F1, il tutto su una piccola strada di montagna, con grandi burroni! Non c’è spazio per l’errore. Tutto questo mette pressione, ma offre anche sensazioni abbastanza incredibili”. Sei davvero nella storia, Sebastien. Se poi, dal 2014, anche nel Mondiale Turismo…


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ANCORA UN INCIDENTE MORTALE, ANDREA MAME’ A LE CASTELLET

Andrea Mamè, a sinistra

(1/7/2013) – Ancora un morto in pista, ancora in terra di Francia. C’è costernazione per l’incidente che è costato la vita al pilota italiano Andrea Mamè durante Gara 1 della quarta prova del Lamborghini Blancpain Super Trofeo sul circuito di Le Castellet, ad una settimana di distanza da quello che alla 24 Ore di le Mans ha avuto il danese Allen Simonsen come vittima. L’incidente è avvenuto durante la bagarre del primo giro: nella carambola che ha coinvolto cinque vetture, quella di Mamè – della Bonaldi Motorsport – è finita frontalmente verso le barriere infliggendo al pilota lesioni che, nonostante i pronti soccorsi al Centro Medico dell’autodromo, sono risultate mortali. Gli altri quattro concorrenti coinvolti sono: Andrea Solimè, poi trasportato in elicottero al Sainte Musse di Tolone e ora in fase di miglioramento, Vaclav Petch, Thomas Kral e Dario Cerati. Dopo l’accaduto le gare sono state annullate in segno di lutto e sono stati acquisiti i filmati per tentare di chiarire la dinamica dell’incidente.  Andrea Mamè, 40 anni, lombardo, correva da tempo con Mirko Zanardini quale suo collaudato compagno di volante. Amava l’automobilismo e lo praticava come pilota (sua anche la Scuderia Lion Racing Team), come sponsor (era Presidente del Mamè Group, gruppo italiano operante nel settore della produzione di fucinati in acciaio) e come titolare del circuito bresciano di Franciacorta (lo piange l’intero staff, direttore generale Umberto Andreoletti in testa). A nome di Automobili Lamborghini il Presidente e Amministratore Delegato Stephan Winkelmann ha espresso le sue condoglianze e il cordoglio di tutta la società alla famiglia ed alla squadra di Andrea. Automobili Lamborghini fa inoltre sapere che collaborerà con il circuito e SRO per indagare a fondo l’incidente in tutti i suoi aspetti. Ricordiamo che nel maggio 2010 fu sfiorata un’altra tragedia nel corso della gara di Brno del medesimo Trofeo: la Gallardo pilotata da Giorgio Bartocci andò a sbattere contro il muretto box prendendo immediatamente fuoco. Bartocci si salvò a stento grazie soprattutto all’intervento provvidenziale del compagno di squadra Fabio Babini che lo estrasse dalla macchina in preda alle fiamme.

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ANNIVERSARY / 1 LUGLIO 1973. C’ERA UNA VOLTA L’ENSIGN

La prima Ensign guidata da Von Opel
(1/7/2013) – In un’assolata domenica di 40 anni fa esatti, sul circuito francese del Paul Ricard, insieme alla Tyrrell di Jackie Stewart e la Lotus di Emerson Fittipaldi appariva per la prima volta in griglia di partenza una monoposto dal disegno e dal colore – verde petrolio – molto originale. Era il debutto in F.1 della Ensign di Morris Nunn, modello MN 01. Al volante, colui che l’aveva commissionata di punto in bianco: Rikki von Opeldiretto discendente, come si evince dal nome, della famiglia tedesca alla testa della omonima Casa automobilistica. Uno sfizio, quello del miliardario rampollo di Colonia, che durò un anno senza risultati (durante il 1974 passò alla Brabham ma infine pensò bene di dedicarsi alla bellissima fotomodella Marisa Barendson). Per la scuderia Ensign, forte dell’apporto dell’ex pilota e appassionatissimo americano Chuck Jones, fu invece l’inizio di un percorso nella massima formula durato fino al 1982, tra alti (pochissimi) e bassi. Il miglior risultato, compreso le monoposto clienti, è stato il quarto posto conseguito dallo svizzero Marc Surer al Gran Premio del Brasile del 1981. Un dato significativo dell’esperienza resta il novero di grandi piloti – ma anche di futuri campioni – che hanno guidato la monoposto. 
Clay Regazzoni a Monza nel 1977
Ricordiamo Chris Amon (1975-76), Jackie Ickx (1976 – 1978), Clay Ragazzoni che approdò nel 1977 alla corte di Nunn dopo il non amichevole divorzio dalla Ferrari. Purtroppo, proprio al volante della Ensign il ticinese, rimasto senza freni,  fu protagonista del terribile incidente di Long Beach (30 marzo 1980) che lo rese paraplegico per il resto della vita. Nel 1978, proprio a bordo della Ensign, dopo un test a Silverstone, al GP di Germania esordì in F.1 un certo Nelson Piquet: il team fu indeciso se confermarlo – alla fine se lo accaparrò la Brabham e fece bene – preferendo in quel  momento puntare sull’esperienza di Derek Daly che ricordiamo tra i coinvolti nella carambola di Monza che costò la vita a Ronnie Peterson. 

L’esordio di Nelson Piquet: GP Germania 1978
Con una Ensign provarono a combinare qualcosa senza successo anche il nostro Lamberto Leoni e l’hawaiano Danny Ongais. L’ultimo alfiere del team fu nel 1982 il colombiano Roberto Guerrero: zero punti, fine dell’avventura. 

La Ensign di Daly con i radiatori frontali
Regazzoni a Long Beach nel 1980: pochi giri e poi l’incidente
La scena dell’incidente di Clay

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HA VINTO ROSSI, EVVIVA ROSSI MA…


(1/7/2013) – Salutiamo il ritorno al successo, dopo quasi tre anni di digiuno, di Valentino Rossi. Ad Assen è tornato veramente lui, The Doctor che conoscevamo: veloce, spietato e imprendibile. Risultava disperso tra amori difficili (vedi Ducati) ed, evidentemente, forcelle non consone al suo stile. La vittoria “all’università di Assen” sicuramente gli garantirà quella iniezione di entusiasmo e di fiducia in se stesso che inevitabilmente risultava annacquata ma invitiamo tutti a calmierare gli ardori tipicamente italici che oggi portano sul trono e domani scaricano all’ospizio. Non era finito prima ma non è l’uomo da battere adesso. Lo riconosce lui per primo: a caldo ha detto di essere “incredulo” e comunque – qui gli va riconosciuta onestà sportiva – di essere stato favorito dalla menomazione fisica di Lorenzo (a proposito: eroico!). L’obiettivo, ha aggiunto, è di “dare battaglia, sempre”. Esserci e divertirsi, aggiungo io. Uno come lui, come dargli torto, non può assistere inerme, da buon quarto e nulla di più, alle lotte di “quei tre” certo più giovani: Lorenzo, Pedrosa e Marquez. Ma ora c’è di nuovo e può sicuramente vincere altre gare ma per favore non si esageri. Gustiamoci semplicemente quanto potrà fare di bello e i conti si facciano alla fine. Solo lo scorso 16 giugno, sul Corriere della Sera, Aldo Grasso nel suo editoriale intitolato “Il mito ammaccato di Valentino, Il “re” che non sa ritirarsi” concludeva scrivendo: “I successi ci esaltano, le sconfitte invece si vendicano, nascondendoci il traguardo della saggezza”.